Non sarà educato svelare l’età di una signora ma con Letizia Battaglia è lecito, anzi doveroso, fare un’eccezione. Perché con le sue rughe, bellissime e narrative, e dal suo metro e sessanta e poco più di altezza, questa donna «ferocemente ostile alle etichette» rappresenta per molti il volto femminile più conosciuto e più premiato della fotografia italiana. Nata a Palermo nel 1935, velleità da scrittrice, è sposa a sedici anni di un uomo che non comprende il suo estro, la sua vivacità. Si affacciano gli anni bui della terapia, seguita in questo duro percorso da un analista tanto abile da riuscire a rimetterla letteralmente al mondo. Ma la cura, quella vera, quella salvifica, è un’altra. È l’inizio della sua storia d’amore con la macchina fotografica a ridarle il suo colore di donna tenace, «perché con la macchina fotografica io ho cominciato a sentirmi libera». La sua vita corre travagliata. Palermo, Milano, poi ancora Palermo. Il suo distruttivo matrimonio finisce; lei nel frattempo incontra il fotografo palermitano Santi Caleca e con lui trascorre otto intensi anni, alcuni dei quali sotto le guglie del Duomo meneghino, dove arriva nel 1971 e «dove mi sono comprata una macchinetta», «una piccola Minolta» per scattare e «guadagnare qualche soldino». Le cose non si può dire che vadano male, anzi «a Milano lei è felice» eppure la sua Palermo, «questa città che mi imprigiona per troppo amore», continua come a richiamarla indietro. Come racconta lei stessa: «A Milano ho sentito di far parte di un mondo che credeva negli ideali e sperava nel futuro. […] A Palermo l’analisi mi aveva permesso di diventare forte e di trasferirmi a Milano. Milano mi aveva permesso di lavorare, mi aveva insegnato a mantenermi. Potevo tornare a Palermo».Così è. Vi fa ritorno e qui, nel 1974, insieme a Santi Caleca, comincia la vera «mia carriera da fotografa» iniziando ad occuparsi dei servizi fotografici per “L’Ora”: «il progetto era importante, si aggiungeva al quotidiano del pomeriggio quello del mattino», ricorda il fotografo nonché suo compagno di vita, nel libro di Giovanna Calvenzi presentato durante la serata del 20 aprile. «Un libro che nasce dalla stima per Letizia», scrive e poi afferma la Calvenzi. E una stima che nasce da ciò che di Letizia si racconta nel libro che raccoglie alcuni scatti della Battaglia e le testimonianze delle persone più significative della sua vita. L’autrice, seduta sul palco predisposto nella sala del Museo del Tessile, ripercorre le attività, le passioni, le sofferenze che hanno caratterizzato l’esistenza e l’impegno di Letizia: dalla scrittura al teatro, dalla politica per la sua amata e disprezzata Palermo – la militanza del passato, il passaggio come Assessore alla Vivibilità nel 1987, il seggio a Palazzo dei Normanni ma anche la ricandidatura per le prossime elezioni comunali – alla fotografia. Prevalentemente la fotografia. Questo è infatti lo strumento che lei sceglie «per dire quello che volevo dire», per «lottare per le cose nelle quali crede» e dunque contro quella mafia che da sempre insanguina le strade della sua città. Immortala tutto, per L’Ora, nonostante le difficoltà incontrate: «essere donna e andare sulla scena di un crimine voleva dire farsi valere» perché, infatti, è solito per lei essere fermata e “interrogata”, anche da uomini in divisa, sulle ragioni della sua presenza lì e della sua macchina fotografica; «poi la polizia ha capito che […] ero una professionista seria».«Unica donna in Italia a lavorare all’interno di una redazione come fotografa», per quattordici anni documenta con il suo obbiettivo “i morti ammazzati” di Palermo, racconta il dolore di quel luogo che le ha dato i natali fissandolo sulla pellicola. Del resto, «fotografare era un suo dovere, fotografare era il suo modo di combattere». Poi però arriva quell’uno-due tragico. Prima Giovanni Falcone, «a cui avevo chiesto consigli perché per un po’ di tempo sono stata minacciata e non è bello»; cinquantasette giorni dopo, «a poche centinaia di metri dalla casa di mia madre», Paolo Borsellino. Davanti a questo scempio sceglie di non fotografare, proprio come nove anni prima, quando decide che non avrebbe fotografato il corpo di Rocco Chinnici. Sente il bisogno di dire basta. Basta con quel dolore. Basta con i morti ammazzati. «Ora faccio foto diverse»: scatti che narrano occhi di bambini e di donne, cerimonie religiose, scorci di cielo terso e volgare asfalto; scatti che celebrano la vita, la bellezza della vita, la bellezza dell’amore, la bellezza di un corpo nudo. Ma questa scelta niente ha a che vedere con una via di fuga, con una rinuncia a combattere. La sua filosofia di lotta, tanto semplice da sembrare in un certo senso meravigliosamente scontata, segue infatti la scia tracciata dalla passione e dal dovere. Fare ciò che piace ed emoziona e farlo bene, ognuno nel proprio ambito, è il miglior modo, a suo avviso, per ribadire con vigore il valore della vita contro una cultura, quella mafiosa, che si basa sulla violenza e sulla superficialità. «Godersi la vita ed essere limpidi e puri» perché «essere contro la mafia è allegria». È il messaggio che vuole affidare soprattutto agli studenti che la stanno ascoltando – probabili aspiranti fotografi a cui, con un serio sorriso, ammonisce di «studiare almeno Cartier-Bresson e Koudelka» – : «Non dovete annoiarvi quando vi dicono “lotta alla mafia”. Dovete essere allegri e felici di avere la testa alta». La macchina fotografica al collo come il più prezioso dei monili e il rosso caldo che inganna l’incanutirsi dei suoi capelli a caschetto testimoniano che c’è da crederle: essere onesti e impegnati ma anche radiosi si può. Non c’è un modo, non c’è un luogo, non c’è un’età. C’è solo la volontà di godere limpidamente della vita.